Giuseppe, vivi in Russia ormai da alcuni mesi. Leggi la stampa russa, parli con la gente e osservi la vita con i tuoi occhi; ma, nel contempo, ti mantieni in contatto con la stampa occidentale. A tuo avviso, come vengono percepite le mosse della Russia dai giornali occidentali?
Molti media mainstream, come è noto, sono schierati dalla parte dell’Ucraina, e non pochi osservatori sono convinti che, sul lungo termine, la crisi in Crimea si rivelerà una sconfitta per la Russia. Ciò, a mio avviso, non deve stupire: molti commentatori sono ancora legati all’epoca delle Rivoluzioni di Velluto, quando la sconfitta finale del sistema comunista sembrava aver rimosso ogni limite alla diffusione del sistema occidentale, ossia di quei valori che essi stessi rappresentano. Ciò che invece colpiscono sono le loro improbabili argomentazioni. Cito un esempio: Eric Posner, docente di legge dell’Università di Chicago, alla fine del suo articolo “What to do about Crimea? Nothing”, giunge ad affermare che “sul lungo termine la Russia non avrà guadagnato niente se non un’arida penisola priva di importanza economica o militare”. Molti giornalisti, poi, dimostrano una scarsa conoscenza degli argomenti su cui scrivono: basti pensare a chi afferma che l’Unione Eurasiatica sia una riedizione dell’Unione Sovietica, quando nel progetto di integrazione eurasiatica il ruolo dell’ideologia comunista è praticamente nullo. L’opinione pubblica occidentale, tuttavia, è molto meno coesa dei suoi media mainstream. In Europa, ad esempio, esiste un certo divario tra una classe dirigente sostanzialmente schierata con Washington – sebbene su posizioni più moderate di quelle degli Obama e delle Nuland –, e un popolo sempre più orientato verso i partiti nazionalisti, euroscettici o “antisistema” – molti dei quali sono particolarmente critici verso le posizioni dei leaders occidentali sulla crisi ucraina. Ciò non è dovuto soltanto alla crisi economica che stanno attraversando alcuni Paesi dell’Europa meridionale (tra cui l’Italia), una delle cui cause è la politica di austerità delle attuali autorità comunitarie, ma anche, e forse soprattutto, alla crisi morale in cui ci troviamo. Cosa vuol dire essere Europei? Cosa ci unisce? Qual è l’obiettivo finale dell’Europa? Gli interessi degli Europei sono coincidenti con quelli degli Americani? La risposta che proviene da partiti come lo UKIP britannico, il Front National francese e il Movimento 5 Stelle italiano può essere discutibile, certamente, ma bisogna riconoscere che questi partiti sanno rispondere a queste domande meglio di quelli tradizionali)
– So che tra i tuoi interessi ci sono, accanto ai temi delle relazioni tra la Russia e i Paesi dell’ex Unione Sovietica, anche quelli dei suoi rapporti con altri Paesi. Quali? E di quali aspetti ti sei interessato?
Oltre che alle relazioni tra la Russia e molti Paesi ex-sovietici, tra cui il Kazakistan – su cui ho scritto la mia tesi di laurea – e l’Ucraina, mi sono interessato molto anche ai rapporti con l’Europa e al ruolo dell’annosa disputa delle Isole Curili nei rapporti con il Giappone. Ultimamente, poi, mi sto interessando alle relazioni tra la Russia e la Turchia, e ciò che mi ha particolarmente colpito è che, malgrado la secolare rivalità tra i due Paesi e le loro enormi divergenze su questioni quali Cipro, Siria e Nagorno-Karabach, Mosca e Ankara siano comunque riusciti ad instaurare delle relazioni fruttuose in vari ambiti, dagli scambi commerciali al turismo passando per il gas.
Sei d’accordo sull’opinione espressa da molti osservatori internazionali, secondo i quali siamo all’inizio di una nuova fase nella geopolitica, nella quale la Russia ha un nuovo ruolo?
La crisi in Crimea rappresenta senza dubbio il punto più basso nelle relazioni tra Russia e Occidente dalla fine della Guerra Fredda, ma le tensioni in realtà covavano già da molto tempo, come dimostrano l’affare Snowden, le tensioni sullo scudo antimissile e le polemiche su gay e allargamento ad est della NATO. Tuttavia non credo che siamo all’inizio di una nuova Guerra Fredda. Non siamo più negli anni Quaranta: Russia e Stati Uniti non sono le uniche grandi potenze, e qualora le tensioni in Ucraina dovessero continuare e i rapporti tra Russia e Occidente peggiorare in maniera significativa, chi trarrebbe i maggiori vantaggi sarebbero le nuove potenze emergenti, in primis la Cina, la cui neutralità sulla crisi ucraina le consente di non peggiorare i rapporti né con gli Stati Uniti né con la Russia. Il mondo sta diventando sempre più liquido: finita l’epoca delle grandi ideologie, le alleanze tenderanno sempre più spesso ad essere legate alle circostanze, e gli amici di oggi possono essere i nemici di domani. Persino nello stesso momento un rapporto di alleanza può coesistere con uno di rivalità. Una nuova Guerra Fredda, pertanto, non è nell’interesse di nessuna delle due parti, ed entrambe sembrano esserne consapevoli. Washington, malgrado la retorica, si è astenuta dal tagliare i ponti con il Cremlino o dall’approvare provvedimenti che possano seriamente danneggiare l’economia russa. Putin, d’altro canto, ha più volte evidenziato che rimane aperto alla cooperazione con l’Occidente, e quindi anche con gli Stati Uniti, in altri settori. A mio avviso, gli Stati Uniti, e in generale l’Occidente, e la Russia dovranno soltanto essere consci di due cose. I primi non possono sfidare la seconda sull’Ucraina, mentre la seconda non può sfidare gli Stati Uniti sulla leadership mondiale. In ogni caso, per la Russia sarebbe ora necessario chiudere al più presto la partita ucraina e focalizzarsi sui suoi problemi interni e sulle relazioni con l’Asia. E’probabile che alla fine la Russia riuscirà a riconquistare l’influenza sull’Ucraina: gli interessi occidentali in Ucraina, dopotutto, riguardano soprattutto il contenimento della Russia, e anche in Occidente non manca chi preferirebbe il ritorno della “pax russica” in Ucraina. La vittoria, però, sarà possibile soltanto sul lungo termine.
Parliamo ora della crisi ucraina. Qual è, a tuo avviso, la causa reale del suo inizio, e quali sono le sue possibili conseguenze?
L’Ucraina è divisa in tre parti. Gli ucraini occidentali sono cattolici, più legati all’Europa Centrale che alla Russia e hanno un atteggiamento tendenzialmente nazionalista, mentre nell’Est e nel Sud del Paese, dove a prevalere è l’Ortodossia, le differenze tra Ucraini e Russi etnici perdono di senso. In più c’è un terzo gruppo di Ucraini che, pur avendo una mentalità molto più simile a quella russa che non, ad esempio, a quella tedesca, guardano verso l’Europa, talvolta per russofobia, talvolta per i – presunti – vantaggi che l’integrazione europea produrrebbe al loro Paese. Ora, per creare un Paese stabile, sarebbe necessario che queste anime dell’Ucraina non siano in contrapposizione, ma si controbilancino a vicenda. Il problema è che nessuno dei principali contendenti vuole rinunciare alla propria influenza per il bene della pace, e accordarsi per un’Ucraina neutrale è molto più difficile di quanto si possa pensare. Il futuro, comunque, dipenderà molto dalle priorità geopolitiche dell’Occidente. L’Ucraina è un Paese grande il doppio della Germania, ha enormi problemi che vanno dalla corruzione alla povertà passando per la scarsa competitività, e, sul breve termine, l’unico vantaggio per gli Ucraini derivante dall’integrazione europea sarebbe la possibilità di emigrare in Europa con maggiore facilità. Portare Kiev sotto l’ombrello europeo sarà tutt’altro che facile, e ciò sarà possibile soltanto qualora l’Occidente fosse seriamente interessato ad attuare una politica di contenimento nei confronti della Russia. Altrimenti rimarrà nel limbo ancora per molti anni, anche se, come ho già detto in precedenza, è probabile che sul lungo termine ad avere la meglio sia la Russia. Dopotutto si tratta dell’unico Paese che può sostenere l’Ucraina per motivi non esclusivamente economici o geopolitici. Non bisogna dimenticare che l’Ucraina, per la Russia, non è solo oleodotti, le acciaierie del Donbass e un mercato di 45 milioni di persone.
Attualmente stai lavorando ad alcuni articoli sulla Crimea per il pubblico italiano. Qual è la tua opinione in proposito?
La crisi in Crimea si sarebbe potuta evitare se i Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, si fossero comportati da arbitri più che da tifosi. Se Kerry, ad esempio, non si fosse dichiarato “scioccato” da una repressione che in realtà consisteva soltanto nella rimozione delle barricate da Maidan e nello sgombero del Municipio di Kiev. Negli ultimi vent’anni, nel bene e nel male, si è avuta un’alternanza tra filoccidentali e filorussi: al filorusso Kučma ha fatto seguito Juščenko, e a Juščenko è succeduto Janukovič. E il tutto per mezzo di elezioni più o meno regolari. Ora, però, l’Occidente senza volerlo ha fatto lo stesso errore compiuto dalle autorità greche a Cipro nel 1974, quando hanno sostenuto la defenestrazione dell’arcivescovo Makarios e la sua sostituzione con un fautore dell’enosis, l’unità con la Grecia. Cinque giorni dopo hanno dovuto affrontare l’invasione turca dell’isola, sostenuta da una minoranza turco-cipriota da sempre ostile all’enosis. Le reazioni della Turchia e della Russia possono essere discutibili – anche se, a differenza dell’invasione turca, l’intervento russo in Crimea è stato quasi indolore – ma le loro ragioni, a mio avviso, sono comprensibili.
Qual è la tua posizione nei riguardi delle sanzioni adottate contro la Russia?
Le sanzioni europee e quelle americane sono molto diverse nei metodi e nei fini. Le prime, che colpiscono le personalità direttamente coinvolte nella crisi in Crimea e nella rivolta nel Donbass, puntano soprattutto a tenere buono l’alleato americano senza incorrere in perdite significative. L’economia europea è troppo legata a quella russa per potersi permettere una guerra commerciale con la Russia, né l’Europa ha le giuste motivazioni per farlo, e l’unica misura significativa è il blocco dei visti Schengen per i cittadini della Crimea con il passaporto russo. Le seconde, invece, hanno un fine politico ben preciso, anche se non dichiarato: isolare Putin colpendo i funzionari e gli oligarchi a lui vicini per ottenere la sua defenestrazione. Obama e Putin non hanno mai avuto buoni rapporti. Quando è salito al potere, Obama parlava di superamento delle logiche della Guerra Fredda e di trasformare la Russia in un alleato. E probabilmente ci sperava realmente: il Presidente americano, dopotutto, è uno che crede alla “fine della storia”, ossia all’idea che, una volta fallito l’esperimento comunista, il futuro avrebbe visto il trionfo della democrazia liberale. Le sue dichiarazioni allo scoppio della crisi in Crimea, secondo cui “Putin si trova sul lato sbagliato della storia”, lo dimostrano chiaramente. Tuttavia, all’inizio della presidenza Obama, l’inquilino del Cremlino era Medvedev, un tecnocrate che sapeva parlare la lingua dell’Occidente. Certamente Medvedev era un uomo di Putin, ma, parafrasando Roosevelt, per i politici occidentali era “il nostro uomo di Putin”. Non deve stupire se il punto più alto delle relazioni russo-statunitensi sia stato raggiunto proprio durante l’era Medvedev. I rapporti tra Putin e Obama, invece, erano difficili già prima dello scoppio della crisi ucraina. Malgrado questi consideri la dissoluzione dell’URSS “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”, Putin non è un nostalgico dell’Unione Sovietica, e anzi lui stesso considera il comunismo un’ideologia fallita. Ma critica l’Occidente, ne evidenzia debolezze e doppi standard, riafferma il particolarismo russo, e inoltre è un vincente in politica estera. E questo, per Obama, è intollerabile.
E nei riguardi delle mosse russe in Ucraina, e in particolare in Crimea?
Da un punto di vista militare e geopolitico, l’operazione è stata un successo. Le truppe russe hanno conquistato la Crimea quasi senza incontrare opposizioni e anzi venendo accolte come liberatrici dalla popolazione locale. E l’annessione della Crimea implica la permanenza della Flotta del Mar Nero nella base di Sebastopoli anche dopo il 2042 (l’anno della scadenza degli Accordi di Char’kov, nda). Da un punto di vista economico, invece, i vantaggi, se ci saranno, saranno a lungo termine. Oltre ad avere un enorme potenziale agricolo e turistico, la Crimea dispone di riserve di gas naturale, che alcuni mesi fa erano state una delle chiavi della diversificazione degli approvvigionamenti di gas del governo ucraino. Tuttavia, visto l’attuale clima di tensione con l’Ucraina e le sanzioni applicate dall’Occidente sulla Crimea – come, ad esempio, la chiusura dei voli diretti verso Simferopoli e il divieto di rilascio dei visti Schengen per i cittadini della Crimea con il passaporto russo –, è improbabile che ciò possa avvenire in tempi brevi. Non in ultima analisi, gli investimenti che la Russia dovrà fare in Crimea saranno ingenti. Nel complesso il bilancio presenta luci e ombre. Nell’antica Roma si diceva “si vis pacem, para bellum”, e le azioni di Putin sembrano ispirate proprio a quest’adagio. E’difficile, dopotutto, che se Putin avesse accettato l’offerta di Barroso a “lavorare con noi” avrebbe ottenuto di più su federalismo e ruolo della lingua russa, o garanzie concrete su un’Ucraina neutrale. D’altro canto, però, le azioni russe hanno portato a un forte peggioramento delle relazioni tra Russia e Ucraina, sia quelle ufficiali sia a livello di semplici cittadini, e le tensioni con l’Occidente hanno prodotto una Russia più debole sul piano internazionale. E ora, per la Russia, è molto importante non perdere le posizioni guadagnate negli ultimi anni.
Quali sono, a tuo avviso, i successi e gli insuccessi della politica estera russa?
Negli ultimi anni la Russia ha messo a segno una serie di mosse che, nel bene e nel male, hanno restituito al Paese un ruolo geopolitico di primo piano. La più importante di tutte è stata senza dubbio il compromesso sulla Siria, non solo perché ha evitato un attacco americano che, come già successo in Iraq e in Libia, si sarebbe potuto trasformare in un favore ai fondamentalisti islamici, ma anche perché avrebbe potuto aprire una nuova fase nelle relazioni russo-statunitensi. Non dimentichiamoci che, nel febbraio scorso, la Russia e la NATO avevano annunciato la loro prima missione militare congiunta, finalizzata al trasporto delle armi chimiche siriane, sebbene lo scoppio della crisi in Crimea abbia portato alla sua sospensione. Tra i successi, però, non vanno dimenticati l’avvio dell’Unione Doganale Eurasiatica, il rafforzamento delle relazioni con la Cina e le schiarite nei rapporti con il Giappone e la Georgia. Altre decisioni, come quella di dare rifugio alla “talpa” Edward Snowden, sono state a mio avviso più discutibili, mentre la cancellazione unilaterale degli Accordi di Kharkov del 2010 tra Russia e Ucraina è stata un grande errore strategico. Gli Accordi di Char’kov, che prevedevano forti sconti sul gas in cambio del mantenimento della concessione della base di Sebastopoli fino al 2042, non avevano più senso dopo il ritorno della Crimea alla Russia. Ma, per l’Ucraina, è stata quasi un umiliazione, e infierire su un avversario sconfitto, a mio avviso, è sbagliato in principio. Da notare, poi, che l’abolizione del trattato ha dato al Consiglio d’Europa il pretesto di richiedere la chiusura della base di Sebastopoli.
Giuseppe, quali sono i tuoi piani per il futuro? Quali sono i temi della politica estera russa di cui ti piacerebbe occupare?
La mia idea è quella di occuparmi, magari per mezzo di un progetto di ricerca, del ruolo che le regioni asiatiche della Russia e le sue minoranze turco-mongoliche possono svolgere per il suo futuro. Da occidentale continuo a sperare in una Russia parte di un’Europa rifondata. Ma mi rendo conto che ciò non è possibile in tempi brevi, anche a causa del crescente divario culturale con l’Europa Occidentale. La Russia non è solo San Pietroburgo o Mosca, né il progetto eurasiatico perde di senso senza l’Ucraina: il Kazakistan, ad esempio, è molto più importante dal punto di vista geostrategico, e la “periferia” russa è in realtà piena di risorse culturali e umane. Ma, in entrambi i casi, ci troviamo di fronte a un potenziale non adeguatamente valorizzato.
articolo originale: http://gorchakovfund.ru/news/11268/