A Torino, come ogni anno, si tiene il Salone del libro. Una kermesse che vede la partecipazione di centinaia di editori, di autori e di “addetti ai lavori”.
I numeri la fanno da padrona, così gli organizzatori declamano, una dopo l’altra, le cifre da primato di quest’ultima rassegna, dalle case editrici presenti agli “eventi” collegati, dalle cosiddette “location” ai quattrocentomila visitatori che si punta ad attirare.
“Gli italiani leggono poco”, si lamentano tutti all’unisono. “Il 10% delle famiglie italiane non ha in casa nemmeno un libro”, chiosa sommessamente qualcun altro.
Insomma, “bisogna leggere di più!”.
Certo, si dà per sottinteso “un buon libro”, ma chi ha veramente le idee chiare su che cosa sia “un buon libro”?
I libri in vendita davvero non mancano. Anzi, per la verità, ce ne sono pure troppi.
Le librerie oggigiorno sembrano dei supermercati, e non è un caso che i libri si trovino anche nei supermercati veri e propri. Le copertine sono sempre più colorate ed appariscenti perché appunto devono attirare “il consumatore”.
Ma quello che preoccupa decisamente sono i contenuti dei libri pubblicati.
Non ricordo esattamente chi l’ha detto, ma un tale ha affermato recentemente: “D’ora in poi non leggerò mai più un libro che non sia in grado di lasciarmi un segno, di elevarmi”.
André Gide, nel 1943, dichiarò: “Che sarebbe stato di me, se avessi incontrato i libri di Guénon quand’ero giovane?”. Non lo sappiamo, ma di sicuro c’è che se Guénon vivesse oggi potrebbe constatare quanto fosse puntuale la sua ‘profezia’ al riguardo del “regno della quantità” quale “segno dei tempi”.
Sono infatti sempre più diffusi gli sconti, le promozioni, i “reminders”, i “tre per due”. Alcuni anni fa, giunsero al punto di vendere i libri “al centimetro”: alla cassa li impilavano, e se superavano un tot di centimetri avevi diritto a qualche riduzione sul prezzo.
Nelle più grandi librerie, poi, si vende ogni tipo di ammennicolo e paccottiglia. Quella editoriale moderna è perlopiù un’industria commerciale che di culturale – se proprio non vogliamo scomodare la parola “sapienziale” – ha ben poco.
Ma torniamo alla scelta del famoso “buon libro” da leggere: essa non dovrebbe essere dettata da motivi quali il “divertimento”, lo “svago”, la “curiosità” o il “gusto” per la lettura. Da quando in qua la mera attività della lettura ha un valore di per sé, indipendentemente dai contenuti? Neanche si può dire che basti il desiderio di “informarsi” (sulla storia, la politica, l’attualità eccetera), anche se è già qualcosa in tempi di “inganno universale” orwelliano.
Leggere ha a che fare con l’educazione, con la formazione di sé.
D’altra parte la parola “cultura” è collegata all’idea di “coltivare”. Farsi una cultura consiste per l’appunto nel ‘coltivare’ se stessi, affinché la propria anima possa ‘fiorire’ e ‘dare frutti’.
L’Italiano non è l’unica lingua che utilizza una metafora agricola. In Arabo, dàrasa (“studiare”) ha la stessa radice di “trebbiare”. Per inciso, l’italiano “leggere” ha molto in comune con l’equivalente arabo qàra’a, che rimanda all’idea di “raccogliere ciò che è sparso e frammentato” (da cui la stessa parola “Corano”, in Arabo, Qur’ân).
La maggior parte dei bambini impara a leggere (o a migliorare la propria lettura) a scuola. Ma va detto che nelle civiltà che hanno preceduto quella cosiddetta “moderna” non era poi così importante la “scuola dell’obbligo”. Quella, per intendersi, che è diventata la riserva di caccia nella quale far scorazzare ogni tipo di assurdità e menzogna, con gli allievi e le loro coscienze a far la parte della facile preda di “pedagoghi” da strapazzo senza nessun orientamento sano.
Per questo c’è stato un ministro che, all’inaugurazione del Salone, ha affermato che s’impegnerà a far sì che “gli autori” siano più presenti nelle scuole… Già, quali autori, e con quali argomenti? Le “famiglie omogenitoriali”? La “sessualità dei bambini”? La “cultura della memoria” a senso unico?
Un tempo, chi aveva la stoffa e la predisposizione, veniva avviato ad un percorso mirato alla ‘coltivazione’ di sé, la quale non poteva che essere di tipo religioso.
Il “libro di testo” – con le relative mene per introdurvi questo o quel contenuto – neppure si sapeva cosa fosse. C’era il Libro sacro e stop. Rivelato. Ed è così, ancora oggi, in quei contesti islamici che tuttavia vedono il parallelo emergere di scuole “laiche” da vari decenni. Eppure, in molte realtà che frettolosamente vengono definite “laiche”, la cultura che veramente conta e per la quale si viene ancora fondamentalmente rispettati più degli altri è quella religiosa.
A corredo del Libro sacro, che primariamente s’impara a memoria perché si conosce veramente solo ciò che si conserva nella mente parola per parola, vi sono inoltre le tradizioni profetiche, ovvero le raccolte che contengono l’esempio virtuoso di colui che tutti i musulmani sono tenuti ad imitare. A seguire, i commentari al Libro sacro e le opere di diritto, perché la legge è l’argine che garantisce ad una comunità di non smarrirsi e, all’individuo, di darsi un limite e non partire per la tangente con speculazioni infondate d’ordine filosofico e teologico. Oltre a ciò, i libri che tradizionalmente val la pena di leggere sono quelli dei sant’uomini, degli ispirati dal Cielo, spesso di difficile “accesso” per i non iniziati (com’è naturale che sia), così come tutta la letteratura “edificante” e anagogica, di cui un’eco, oggidì, è data da certa saggistica che prende le mosse da una sincera intenzione dell’autore. Infine, i testi per lo studio dell’Arabo, lingua sacra che perciò si è chiamati a conoscere a menadito per accedere ai segreti della Rivelazione.
Anche da noi lo studio e la lettura erano una cosa seria, quando le materie di studio erano le arti del trivio e del quadrivio. Si pensi alla fondamentale importanza della dialettica e della retorica, se solo ci si sofferma sui “selvaggi con telefonino” (per dirla con Blondet), i quali si stanno sempre più imbarbarendo sotto l’aspetto del linguaggio, per non parlare delle basi stesse della logica, azzerate a favore d’un irrazionalismo diffuso.
E non è del tutto esatto dire che oggi “si legge poco”. Il problema è che si legge di tutto, a pezzi e bocconi, saltando di palo in frasca, su internet, sul tablet, l’iPad e lo smart phone, senza selezionare ma anzi lasciandosi trasportare nella “navigazione”, per il semplice fatto che non c’è nessuna guida autorevole che indichi cosa e, soprattutto, come leggere. I classici immortali sono sempre più incompresi dagli stessi insegnanti, così, non del tutto incomprensibilmente, i ragazzi considerano molto più interessanti ed avvincenti le storielle di qualche romanziere alla moda, che fiuta l’affare, allunga il brodo, e rifila ai suoi sprovveduti in erba lettori una sequela di mattoni melensi e strappalacrime ideati per chi ancora non ha una personalità formata.
D’altra parte gli adulti – eterni bambinoni che non si pongono mai il problema che un giorno moriranno – non sono d’esempio per i giovani, perché invece di trovare rifugio in letture “senza tempo” preferiscono zavorrarsi le borse e le menti con le ultime “rivelazioni” del tal autore di grido sulla “vita segreta” di Gesù, la Chiesa cattolica (ovviamente piena di pedofili) e l’imminente apocalisse che salverà solo gli “illuminati” e gli “eletti” che stanno dietro il medesimo pompatissimo scrittore di “best sellers”.
Un’espressione, quest’ultima, che già dice tutto sulla crassa e volgare concezione che del sapere hanno Oltreoceano. Da dove arriva l’ultima terrificante moda del “libro elettronico” o “e-book”, che porta a compimento lo sfaldamento del concetto stesso di lettura con la sua piattezza ed immaterialità sfuggente.
“Leggere ad ogni costo”, dunque? Vi è chi non va oltre la lettura del quotidiano, con la sua cronaca locale, o addirittura del catalogo di qualche ipermercato, col che si capisce perché si sono tanto dati da fare per “alfabetizzare” tutti quanti. Bisognava saper leggere le pubblicità, altro che!
Eppure, sostanzialmente, non c’è differenza tra chi legge i giornaletti gratuiti distribuiti nella metro e chi si riempie il carrello nei moderni “bookstore”. Il minimo comun denominatore è la completa inutilità di ciò che leggono.
Mi correggo: si tratta di una perdita di tempo. O più precisamente di un’occasione perduta.
Siccome il tempo a disposizione non è infinito, né quello nell’arco della giornata né quello della nostra singola esistenza, si può con cognizione affermare che dedicarsi a letture vane che non si traducano in un affinamento ed un’elevazione del nostro essere è un vero e proprio “peccato”.
Sapere comporta responsabilità, ed un’autentica scienza non può che ripercuotersi sul nostro modo di pensare e di comportarci. Tradizionalmente, si dice che è meglio non sapere se non si è in grado di tradurre in pratica ciò che si sa. Il che la dice lunga su quanto un sano approccio alla lettura sia diametralmente opposto alla bulimia pseudoculturale che tanto piace agli organizzatori di “eventi” ed ai loro entusiasti frequentatori. I moderni, infine, sanno anche troppe cose, la loro mente è stracolma di nozioni ed informazioni, ma il problema è che si tratta di questioni inutili ai fini della famosa “domanda essenziale” che attende tutti prima o poi.
Possiamo quindi continuare a far finta di nulla riducendo l’approccio al libro ad una questione di “shopping” e di “happening”?
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“GLI ITALIANI LEGGONO POCO”: MA È DAVVERO QUESTO IL PROBLEMA?
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